Nei laboratori di PMA più all’avanguardia, gli embrioni creati attraverso la fecondazione in vitro vengono coltivati e portati fino allo stadio di blastocisti.
Perché è meglio trasferirli in questo momento, piuttosto che nelle fasi precedenti di svilippo?
Risponde la d.ssa Daria Soscia, embriologa del centro GeneraLife di Roma.
“Dopo tre giorni dall’inseminazione dell’ovocita, e dopo una corretta fecondazione, l’embrione si trova in uno stadio chiamato di ‘clivaggio’ ed è formato da circa 8-12 cellule. Lo stadio di blastocisti viene invece raggiunto circa 5/7 giorni dopo l’inseminazione. La blastocisti in questa fase è formata da circa 200 cellule e si possono distinguere due parti, trofoectoderma e massa cellulare interna, che daranno origine agli annessi embrionali e al feto”, premette l’esperta.
“Estendere la coltura fino allo stadio di blastocisti – spiega – permette di beneficiare di una sorta di processo di ‘autoselezione’ messo in atto dagli embrioni stessi, per cui quelli competenti allo sviluppo proseguono, mentre gli altri vanno incontro a un arresto. Mediamente, lo stadio di clivaggio viene raggiunto da più del 90% degli ovociti fecondati, mentre quello di blastocisti da circa il 50%. Trasferire in utero una blastocisti, quindi un embrione che ha già proseguito la sua crescita e quindi ha dimostrato di avere una capacità intrinseca di svilupparsi, consente quindi di valutare la competenza dell’embrione e si traduce in un aumento del tasso di bambini nati per transfer, rispetto al transfer di embrioni allo stadio di clivaggio. Tutto questo, si noti, non comporta un aumento del numero totale di bambini nati, che rimane lo stesso, ma un minor numero di trasferimenti (sia in fresco che dopo scongelamento) per ottenere questo risultato, con un’ottimizzazione del tempo per raggiungere la gravidanza, evitando anche delusioni durante questo percorso, portate dal trasferimento di embrioni che non avrebbero la capacità di svilupparsi”.